Nell’immediato secondo dopoguerra, prima che la guerra fredda congelasse i confini nazionali e i rapporti fra gli Stati, rifugiati, sbandati, ex prigionieri, persone senza più una casa o famiglia decisero di emigrare con lo scopo di ricostruirsi un’esistenza. Da un punto di vista economico, il volto dell’Europa cambiò a causa del movimento di uomini e donne che si spostarono dalle campagne alle città. In Italia, ad esempio, milioni di persone si trasferirono dal meridione verso le zone con il maggior sviluppo industriale: il nord Italia, alcune aree della Francia, della Germania e della Svizzera. L’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra vide dunque praticate le tre direttrici possibili: interna (da sud a nord), europea e transoceanica.
La migrazione italiana in Europa si fondava sulla complementarietà tra la disoccupazione italiana e la necessità di manodopera di alcuni mercati europei. Fu una migrazione soprattutto maschile e fortemente caratterizzata dalla temporaneità, sia a causa dei settori produttivi di impiego (edilizia e agricoltura), sia per la vicinanza geografica con i luoghi di partenza. Il trasferimento definitivo si realizzò solo per una quota minoritaria del flusso complessivo. Caratteristica peculiare dell’emigrazione italiana del secondo dopoguerra fu l’organizzazione istituzionalizzata dei flussi di uscita. I governi erano infatti convinti che per risolvere il problema della disoccupazione fosse necessario rivolgersi al contesto internazionale.
Il Trentino, pur non essendo stato nel corso della Seconda guerra mondiale un campo di battaglia in modo continuativo, fu fortemente danneggiato dai bombardamenti sui centri maggiori e sulle vie di comunicazione. L’economia rurale montana uscì prostrata dalla guerra a causa dei danni inferti alle due maggiori risorse: le campagne e i boschi. Nel secondo dopoguerra si ebbe quindi una ripresa dell’emigrazione con una media nei primi dieci anni di circa 3500 partenze all’anno. Il periodo in cui furono maggiori gli espatri fu il decennio 1951 – 1961 quando fu interessato dal fenomeno il 79% dei comuni trentini. Il 90% dei trentini scelse di emigrare in paesi europei; meta privilegiata fu la Svizzera, che tra il 1946 e il 1977 venne scelta da circa 30.000 lavoratori trentini. All’inizio gli emigrati trovarono spesso impiego nell’agricoltura e nell’edilizia, in seguito si impose il lavoro operaio nelle fabbriche a cui si aggiunse il settore del turismo e della ristorazione. Si trattò quasi solo di emigrazione temporanea, sia per volontà dei lavoratori stessi, sia come conseguenza della legislazione svizzera che ostacolava lo stanziamento degli stranieri. L’emigrazione in Svizzera contribuì quindi a portare nelle arretrate valli trentine molti aspetti legati alla modernità come le automobili, i primi elettrodomestici e i servizi igienici nelle abitazioni.
Il secondo paese per numero di trasferimenti fu la Germania in cui gli arrivi si fecero consistenti soprattutto dopo il 1961, quando la costruzione del muro di Berlino impedì l’arrivo dei lavoratori dall’est Europa. L’entità del fenomeno nel suo insieme è difficile da quantificare: si stima che dal 1965 al 1968 dal Trentino-Alto Adige partirono poco meno di 5000 lavoratori, ma il dato è certamente parziale e non tiene conto del fenomeno dei clandestini. Se da un lato la Francia calava drasticamente il suo potere di attrazione a causa della svalutazione del franco e per una politica di piena occupazione interna, dall’altro emergeva come nuovo mercato il Belgio. Tra il 1946 e il 1952 venne stipulato un accordo tra il governo italiano e quello belga con il quale l’Italia si impegnava a trasferire 2000 lavoratori ogni settimana verso le miniere di carbone. Lo Stato italiano avrebbe ottenuto in cambio carbone a prezzo agevolato, necessario per far ripartire le industrie italiane. Questa emigrazione contrattata coinvolse il 7% degli emigranti trentini.
I flussi migratori transoceanici dall’Italia nel secondo dopoguerra presentano caratteristiche diverse rispetto a quelli dei periodi precedenti: per quantità, destinazioni, composizione, cultura e professioni. La fine della guerra aveva creato un forte desiderio di ricostruzione: spesso l’emigrazione costituì la possibilità per una rinascita morale, civile e politica ancor più che economica, recidendo gli antichi legami e allontanando il peso dei ricordi e dei traumi. Il numero più alto di partenze si ebbe, anche in questo caso, dalle regioni dell’Italia meridionale mentre per il nord la regione più coinvolta fu il Veneto.
Per quel che riguarda l’emigrazione trentina oltreoceano, spiccano due destinazioni privilegiate in America Latina: l’Argentina e il Cile. Per il flusso migratorio diretto in Argentina furono fondamentali i richiami di compaesani e parenti già emigrati negli anni Venti e Trenta. Nel periodo di massima attrazione, tra il 1946 e il 1953, il fenomeno coinvolse circa 2500 individui. In seguito si ridusse a qualche decina all’anno. Gli immigrati trentini in questa fase trovarono lavoro non solo in agricoltura ma anche nell’industria e nel terziario. I più intraprendenti ebbero modo di avviare proprie attività ed alcuni raggiunsero un discreto successo. L’Argentina fu anche il Paese che diede accoglienza a individui compromessi con il fascismo, provenienti dall’Italia e anche dal Trentino.
L’altro Paese sudamericano che intrecciò la sua storia con quella del Trentino, purtroppo in maniera drammatica, fu il Cile. Nel 1951 – grazie ai fondi del piano Marshall – il Trentino Alto-Adige organizzò l’invio di un contingente di famiglie di agricoltori per fondare delle colonie agricole. Nell’aprile del 1951 vennero trasferite 154 persone a cui vennero assegnati dei lotti di terra all’interno di una comunità parzialmente organizzata. Dopo un periodo di assestamento le colture cominciarono ad essere produttive e l’esperienza ebbe un esito generalmente positivo. Alla luce della prima esperienza venne organizzata una seconda spedizione che tra il 1952 e il 1953 portò in Cile altri 758 trentini. La seconda colonia fu organizzata in fretta e con molta superficialità tanto da risultare un fallimento pressoché totale. Le famiglie più fortunate, e con una certa disponibilità economica, riuscirono a ritornare in Trentino. Altre si trasferirono nelle città o tentarono una nuova emigrazione verso il Brasile. Per molti quest’avventura si concluse in maniera negativa e dovettero essere rimpatriati dalla Provincia trentina nei decenni successivi.
Durante questo arco cronologico un’altra destinazione che esercitò un certo fascino per i trentini fu l’Australia. Meta scelta soprattutto dai lavoratori del Primierio tra il 1949 e il 1952, che vi si recarono per svolgere le professioni di falegnami, operai edili e minatori. Fra il 1950 e il 1970 si registrano, invece, numerose partenze dalla zona della Vallarsa con destinazione le coltivazioni di tabacco. All’inizio degli anni Settanta alcuni fenomeni segnano il declino dell’emigrazione italiana e molti lavoratori rientrano con i loro risparmi per avviare un’attività in patria. L’economia dell’Italia settentrionale si sviluppa tanto da poter diventare un polo di attrazione per processi di immigrazione.
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Guarda la puntata Migrare: dal Trentino all’Europa 1850-1980 dedicata alla storia dell’emigrazione trentina tra Otto e Novecento. A cura dell’Area educativa dalla Fondazione Museo storico del Trentino con la partecipazione di Nicola Sordo. Puntata a cura di: Elisabetta Antonelli, Michele Toss e Sara Zanatta.