Alla fine della Prima guerra mondiale, nel 1919, il Trentino-Alto Adige venne annesso all’Italia. Questo territorio era stato un teatro di guerra per tutta la durata del conflitto e ne era uscito duramente provato. Più di un terzo della regione era devastata e un numero incalcolabile di edifici era distrutto. Le infrastrutture, i ponti, le ferrovie e le strade erano inutilizzabili e le campagne erano disseminate di proiettili e mine inesplosi.
Durante gli anni del conflitto, che aveva determinato stravolgimenti anche in campo economico, il consueto flusso migratorio “di mestiere” si era interrotto, e quindi anche i legami tra alcune valli trentine e le destinazioni di lavoro all’estero furono spezzati. Nel 1920 l’emigrazione riprese lentamente, con circa 1500 partenze, per rafforzarsi negli anni seguenti. Si stima che dal 1920 al 1939 partirono dal Trentino circa 60.000 persone, la metà delle quali in maniera definitiva. Le partenze coinvolsero soprattutto le alte valli con un conseguente spopolamento delle zone di montagna.
In tutta Europa le politiche sull’immigrazione rispondevano alla necessità di forza lavoro per la ricostruzione postbellica. Contemporaneamente risentivano dei nascenti nazionalismi con una conseguente chiusura nei confronti degli stranieri. Le destinazioni europee preferite dai trentini furono la Francia, il Belgio, l’Austria, la Svizzera e l’Inghilterra. L’emigrazione transoceanica si rivolse sia verso l’America del Sud, in prevalenza in Argentina, sia verso l’America del Nord. Tra il 1922 e il 1925 furono numerosi i contadini, provenienti prevalentemente dalle zone di Trento e di Rovereto, che si diressero nelle campagne del sud-ovest della Francia, all’epoca spopolate dalla guerra. Altri settori di forte richiamo furono quello minerario, quello del legname (sulle Alpi) e l’edilizia (quasi esclusivamente a Parigi). Dalla Vallarsa e dalla valle di Non, inoltre, gli emigrati si recarono come operai nelle fabbriche di St. Etienne e di Lione.
Anche il Belgio incentivò l’arrivo di lavoratori: fra il 1922 e il 1932 furono 6500 gli immigrati trentini, la maggior parte dei quali impiegati nelle miniere. L’ambiente di lavoro era malsano e pericoloso e la mortalità fra i minatori era altissima, sia per le malattie tipiche (come la silicosi) sia a causa dei frequenti incidenti nelle gallerie.
In Svizzera si recarono circa 3000 trentini, impiegati in agricoltura, nelle fabbriche e come manovali. Rilevante, in questo caso, fu la presenza delle donne che trovarono occupazione sia come domestiche in case private sia come operaie nel settore tessile. Altre 2000 persone circa si diressero verso gli Stati dell’ex Impero austro-ungarico dove, almeno nei primi anni ’20, vennero riallacciati i rapporti di lavoro fra operai e imprese esistenti già prima della guerra. Il flusso in direzione dell’Argentina fu rilevante e coinvolse, tra il 1922 e il 1932, 8000 trentini. I lavoratori che emigrarono oltreoceano erano soprattutto minatori, operai, contadini e manovali.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti d’America, nonostante l’accesso fosse fortemente condizionato dalle norme restrittive emanate già a partire dal 1917, negli anni tra le due guerre furono circa 4500 i trentini che scelsero questa destinazione. Si trattò – in molti casi – di trasferimenti temporanei che si conclusero con il rientro al paese d’origine dopo qualche anno. Le zone di partenza interessate furono le stesse di prima della guerra: soprattutto la valle di Non e la val Rendena. Da quest’ultima, ad esempio, continuarono ad emigrare gli arrotini, tant’è che a New York se ne contavano più di 200 nel 1926.
All’interno della penisola italiana, l’atteggiamento del governo di Mussolini nei confronti dell’emigrazione fu generalmente indirizzato al controllo e alla limitazione delle partenze. Nella visione nazionalista l’emigrazione temporanea era tollerabile finché contribuiva con le rimesse all’economia italiana e veicolava la diffusione dell’ideologia fascista nel mondo. Nonostante le limitazioni generali, per i trentini rimaneva la possibilità di percorrere le tradizionali rotte migratorie verso l’Italia. L’emigrazione interna fu quindi uno sbocco importante e si diresse verso le regioni più industrializzate del nord. Tra il 1921 e il 1931 furono circa 6000 i trentini che si trasferirono in Veneto e 9000 in Lombardia. Il fascismo incentivò, inoltre, una politica migratoria in direzione delle colonie africane. Tra il 1929 e il 1938 si ebbe quindi l’emigrazione di 2700 famiglie trentine nell’Africa Orientale Italiana (Etiopia, Eritrea e Somalia).
Nel 1937 un trattato stipulato tra Mussolini e Hitler riattivò invece la direttrice migratoria verso la Germania. I contratti, che prevedevano partenze di contingenti ogni sei mesi, indirizzavano gli immigrati verso le fabbriche belliche e verso i latifondi. Nella primavera del 1941 furono 2000 i contadini trentini che andarono a lavorare nelle campagne tedesche. Si trattò quasi sempre di un’emigrazione stagionale e le partenze proseguirono fino al 1943. Le condizioni di lavoro erano discrete e la paga buona, soprattutto in considerazione del cambio favorevole.
Un’ulteriore valvola di sfogo per le zone del Paese oppresse dalla disoccupazione fu individuato dal regime fascista nelle opere di bonifica dell’agro pontino. Negli anni Trenta venne dato l’avvio alla trasformazione delle paludi malariche del litorale a sud di Roma in un territorio adatto all’agricoltura. La terra risanata e coltivabile venne suddivisa in poderi e assegnata a famiglie provenienti dalle zone più depresse del Paese. L’assegnazione coinvolse anche famiglie, emigrate in passato, che non erano riuscite a raggiungere condizioni di vita migliori all’estero e che quindi reputavano vantaggiosa l’occasione di ritornare in Italia. Nel 1939 fu pertanto istituita la Commissione Permanente per il rimpatrio degli italiani all’estero.
Durante gli anni Trenta il governo fascista si occupò anche del rimpatrio di 96 famiglie di origine trentina emigrate in Bosnia nella seconda metà dell’Ottocento. La Bosnia Erzegovina, dal 1878 parte dell’Impero austro-ungarico, tra il 1883 e il 1884, era stata oggetto di un progetto di colonizzazione da parte del governo austriaco che voleva ovviare da una parte alla bassa densità demografica e dall’altra ridimensionare la rilevante componente mussulmana. Nella regione erano stati trasferiti, in diverse fasi, nuclei familiari trentini per un totale di circa 800 individui che si erano costituiti in una decina di comunità. Nel primo dopoguerra, con la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, i trentini residenti in Bosnia Erzegovina si trovarono in una posizione dai contorni incerti: erano considerati italiani da parte del governo di Roma e austriaci da parte del governo jugoslavo. La questione venne affrontata solo nel 1939 quando il ministro degli esteri italiano Galeazzo Ciano raggiunse un accordo con le autorità di Belgrado. Delle circa 120 famiglie di origine trentina residenti in Bosnia, 96 scelsero il rientro in Italia e vennero destinate dal governo ad occupare alcuni poderi nell’agro pontino.
Tra le cause che spinsero ad emigrare dall’Italia nel periodo fra le due guerre si devono ricordare anche le motivazioni politiche, dovute alla volontà o alla necessità di lasciare il Paese in conseguenza dell’avversione al regime fascista. Il fenomeno è rilevabile anche per il Trentino-Alto Adige. Per questo territorio nel Casellario Politico Centrale a Roma sono conservati i fascicoli di 1654 persone, tra uomini e donne, schedati come “sovversivi”. Di questi, 650, ben più di un terzo, risultano fuoriusciti (soprattutto in Francia, in Belgio e negli Stati Uniti).
Per maggiori informazioni
Guarda la puntata Migrare: dal Trentino all’Europa 1850-1980 dedicata alla storia dell’emigrazione trentina tra Otto e Novecento. A cura dell’Area educativa dalla Fondazione Museo storico del Trentino con la partecipazione di Nicola Sordo. Puntata a cura di: Elisabetta Antonelli, Michele Toss e Sara Zanatta.