La Gran Bretagna fino alla seconda metà del XX secolo non si caratterizzò come meta di un'immigrazione numericamente importante e organizzata in flussi. Fino al secondo dopoguerra si hanno movimenti migratori che giunsero da ogni parte d'Europa con andamento sporadico e numeri contenuti. La Gran Bretagna, infatti, non aveva la necessità di incentivare l'arrivo di lavoratori da altri paesi. Durante il periodo dello schiavismo il fabbisogno di manodopera veniva coperto dagli schiavi africani, in seguito l'economia britannica poté fare affidamento sugli irlandesi che dalla metà del XIX secolo, a causa delle crisi agricole, furono costretti a lasciare in maniera massiccia le loro terre. Tutti coloro che non potevano permettersi il viaggio fino agli Stati Uniti si fermarono in Inghilterra e in Galles.
L'immigrazione degli italiani in Gran Bretagna si inserisce in questo contesto generale. Fino al Settecento si verificarono solo trasferimenti di singole personalità per ragioni di affari o per scelte culturali (banchieri, musicisti, architetti, pittori e altri artisti). Nel XIX secolo anche la Gran Bretagna cominciò ad essere presa in considerazione come meta per l'emigrazione. Da un lato da artigiani che esprimevano uno specifico sapere locale (carpentieri e fabbricanti di strumenti di precisione da Como, figurinai della provincia di Lucca) dall'altro dagli emigranti poveri, coloro che non portavano alcuna professionalità e vivevano di espedienti: girovaghi, musicisti di strada, saltimbanchi, venditori ambulanti. La vicenda dell'emigrazione italiana in Inghilterra, in modo particolare per quel che riguarda Londra, fu tristemente caratterizzata dall'immigrazione minorile. Questa si configurava come una vera e propria tratta di bambini gestita da italiani che reclutavano ragazzini nei villaggi di provenienza per sfruttarli poi come mendicanti, suonatori d'organetto e spazzacamini. Nel censimento del 1901 si contarono duemila di questi suonatori girovaghi che vivevano ai margini della società in condizioni estremamente precarie.
All'inizio del Novecento si verificò un aumento dell'immigrazione dall'Italia e una differenziazione delle professioni. Molti si impiegano nell'ambito della ristorazione (quello che resterà il loro settore di punta anche in seguito) importando tipologie professionali ed alimentari inedite, ad esempio i pastifici e le gelaterie.
Per quel che riguarda la vicenda dei trentini bisogna precisare che fino al 1918 il Trentino faceva parte dell'Impero austro-ungarico e quindi i dati relativi a questa regione non sono compresi nelle statistiche italiane. La storia dei trentini in Gran Bretagna cominciò all'inizio dell'Ottocento quando tutta l'Europa venne attraversata dai venditori ambulanti (perteganti) che provenivano per la maggior parte dal Tesino. Dopo essersi spinti in ogni angolo dell'Europa continentale giunsero anche in Inghilterra. Una tipologia particolare fu quella degli arrotini che provenivano in prevalenza dalla Val Rendena e in misura minore dal Bleggio e dal Tesino. Inizialmente si trattò di una migrazione temporanea che poi si fece stanziale. Gli arrotini che si trasferirono in Gran Bretagna videro una graduale modernizzazione del loro lavoro, la mola a pedale veniva sostituita da quella meccanica, prima trainata da un cavallo e poi dall'automobile. Tra il 1870 e il 1915 l'Inghilterra fu la meta preferita per questo gruppo di lavoratori. Inizialmente furono solo a Londra ma in breve tempo si diffusero anche in altri importanti centri urbani dal sud fino alla Scozia e perfino in Irlanda. Dopo qualche generazione i moléta trentini e i loro discendenti furono in grado di abbandonare il lavoro ambulante e di aprire delle botteghe artigiane che si trasformarono in rinomate coltellerie.
Alla vigilia della Prima guerra mondiale gli italiani in Gran Bretagna erano circa 25.000 e rappresentavano ormai una comunita? stabile e assestata, con una forte presenza di nuclei familiari e quindi di donne (il 30% della colonia italiana nel 1911). A partire dagli anni Venti, la Gran Bretagna adottò una politica di autarchia chiudendo i confini all'ingresso dei lavoratori europei. Le misure protezionistiche si intensificarono finché nel 1930 il Regno Unito si trovò ad essere un paese “a quota zero”, la democrazia industriale con la più bassa presenza di immigrati (si trattava in realtà di un'autosufficienza che nascondeva l'afflusso ininterrotto degli irlandesi). Durante la Seconda guerra mondiale gli italiani presenti in Gran Bretagna vennero considerati nemici stranieri e circa 4000 uomini in età da arruolamento furono internati nei campi di prigionia.
Negli anni Cinquanta la Gran Bretagna si trovò per la prima volta di fronte alla necessità di importare manodopera di basso livello da impiegare nei lavori che gli inglesi non erano disposti a fare, soprattutto nel settore minerario e in alcuni tipi di fabbriche. Vennero quindi realizzati accordi fra il governo italiano e alcuni settori produttivi per l'invio di lavoratori. Si trattava di contratti commerciali che non prevedevano alcuna forma di tutela. Ogni responsabilità del governo italiano veniva meno nel momento in cui l'operaio arrivava nel paese straniero, qui le condizioni di lavoro erano sempre molto dure. Ricordiamo solo il caso dei 2500 operai italiani ingaggiati per le miniere di carbone, che nel 1951 arrivarono in Inghilterra a seguito di un accordo tra il governo italiano e il National Coal Board. Questi operai vennero mandati a lavorare senza alcuna formazione e con una paga che era la metà di quella dei minatori inglesi. A seguito delle proteste non ottennero alcun miglioramento nelle condizioni contrattuali e vennero anzi fatti rimpatriare forzatamente. Negli anni '50 l'immigrazione italiana si caratterizza come di provenienza meridionale e con una buona presenza delle donne che erano impiegate soprattutto negli ospedali come personale ausiliario (nel 1951 la presenza femminile era il 61% del totale).
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