Gli Stati Uniti d’America, il Paese delle opportunità per antonomasia, furono per tutto il XIX secolo la meta privilegiata del grande esodo dall’Europa. Dopo la guerra civile (1861-1865) fu portata a compimento l’espansione verso i territori dell’ovest e grazie allo sfruttamento delle risorse naturali il Paese divenne la prima economia mondiale. Gli enormi allevamenti, il completamento della più estesa rete ferroviaria del mondo (più di 300.000 chilometri alla fine dell’Ottocento), l’industrializzazione e lo sviluppo tecnologico richiamarono manodopera da ogni angolo della Terra.
Entro la fine dell’Ottocento 10 milioni di residenti negli Stati Uniti risultavano nati fuori dai confini nazionali e altri 14 milioni sarebbero giunti tra il 1900 e il 1914.
La prima ondata di immigrati, tra il 1815 e il 1890, proveniva dall’Europa settentrionale: Gran Bretagna, paesi scandinavi e Germania. Erano agricoltori attratti dalla possibilità di acquistare i terreni nei nuovi possedimenti dell’ovest sottratti con la violenza ai nativi. Con l’Homestead Act, la legge firmata dal presidente Lincoln nel 1862, il governo concedeva infatti appezzamenti di terreno a prezzi accessibili a chiunque si impegnasse ad insediarvisi per almeno cinque anni. Per ottenere la terra era necessario essere maggiorenni, capifamiglia e cittadini degli Stati Uniti (o almeno avere avviato il procedimento per la cittadinanza).
Dall’Italia gli immigrati cominciarono ad arrivare nella seconda metà del XIX secolo. Erano artigiani, venditori ambulanti, artisti, ma anche fuoriusciti politici, tra cui lo stesso Giuseppe Garibaldi, e personalità d’ingegno che negli Stati Uniti trovarono il terreno adatto per le loro sperimentazioni (si pensi ad Antonio Meucci che nella sua casa di Staten Island concepì la sua invenzione più nota, il telefono). Nel 1880 erano ancora solo 44.230 i residenti negli Stati Uniti nati in Italia, ma a partire da quel decennio la situazione si modificò per l’arrivo di contingenti più numerosi di contadini. In 25 anni, quindi entro il 1900, arrivarono infatti 800.000 italiani. Dal 1900 al 1915 si registrò il culmine dell’immigrazione italiana, 3 milioni e mezzo furono gli sbarchi ad Ellis Island. Si trattava di un’immigrazione temporanea (almeno nelle intenzioni) di contadini maschi, provenienti dall’Italia meridionale (l’80%) e con un livello di istruzione molto basso.
Per quest’ultima ragione gli italiani vennero relegati nei posti di lavoro meno qualificati: nella costruzione di ferrovie, fognature e tunnel, nell’edilizia, nei porti e nelle miniere. Pochissimi erano interessati a diventare agricoltori. Per lungo tempo rimasero esclusi dagli impieghi nelle fabbriche. Si riteneva infatti che gli italiani non fossero in grado di raggiungere la preparazione necessaria.
Se il basso livello di istruzione era un dato di fatto, si deve riconoscere che sussistevano anche un forte pregiudizio negativo e una componente di razzismo in queste valutazioni. Solo durante la Prima guerra mondiale gli italiani riuscirono ad ottenere impieghi migliori a causa della scarsità di forza lavoro. Con il passare degli anni, la comunità italiana divenne più stabile, si ampliò con l’arrivo delle famiglie e aumentò il suo potere d’acquisto. Venne quindi a crearsi lo spazio per nuovi negozi e servizi gestiti dagli italiani per la propria comunità.
Le prime attività commerciali furono nel campo alimentare: dalla produzione delle materie prime (vigneti, uliveti, pesca) alla vendita al dettaglio, alla ristorazione. Un settore che seppe in poco tempo conquistare una clientela cosmopolita. Sui successi degli italiani purtroppo gravava l’ombra della malavita organizzata che presto comprese le potenzialità del grande mercato statunitense e si inserì in ogni business oltreoceano. L’immigrazione italiana fu soprattutto urbana e, vista la tendenza dei compaesani a stabilirsi vicini, si costituirono in molte città le cosiddette Little Italies. Durante la Prima guerra mondiale Stati Uniti e Italia combatterono nello stesso schieramento. Fu l’occasione per i giovani di origine italiana di combattere per il Paese di adozione, ottenendo la cittadinanza, senza tradire la patria di origine. Dopo la Prima guerra mondiale gli Stati Uniti posero un blocco all’immigrazione e vennero stabilite quote annuali per ogni Paese europeo. Per l’Italia erano ammessi 3845 nuovi ingressi all’anno. Anche se gli arrivi furono in realtà molti di più, perché la quota non comprendeva i ricongiungimenti familiari, di fatto l’Emergency Quota Act del 1921 pose fine alla fase della grande immigrazione.
Per quel che riguarda l’emigrazione dei trentini i dati disponibili sono discontinui e va ricordato che fino al 1918 il Trentino era parte dell’Impero austro-ungarico e quindi i trentini non rientrano nei dati relativi all’Italia. La Statistica dell’Emigrazione americana avvenuta nel Trentino dal 1870 in poi compilata da don Lorenzo Guetti, per il periodo 1870-1887, registra la partenza di 4000 trentini alla volta dell’America Settentrionale. Sono ricordati insediamenti di trentini soprattutto in relazione ai giacimenti minerari di carbone. Per il decennio 1890-1900 non sono disponibili dati precisi, ma dallo studio della stampa dell’epoca si evince come gli Stati Uniti fossero una meta dominante, in sintonia con l’emigrazione austriaca. Il possesso del passaporto austriaco costituiva un vantaggio e preservò, in certa misura, i trentini dal razzismo e dai pregiudizi di cui erano oggetto gli italiani. Anche per i trentini l’attrattiva principale degli Stati Uniti non era la terra ma il reddito monetario, l’emigrazione era intesa come temporanea con il desiderio di tornare in patria il prima possibile con il capitale accantonato. I trentini si impiegarono quindi in prevalenza nelle miniere e gli Stati privilegiati erano quelli con la maggiore attività estrattiva, Pennsylvania e Colorado.
Nelle zone minerarie giunse anche un buon numero di donne che guadagnavano qualcosa occupandosi delle abitazioni dei minatori scapoli. Il lavoro in miniera era estremamente pericoloso e insalubre e fu causa di morte per molti lavoratori. Quasi ogni settimana i giornali trentini riportavano la notizia di incidenti nelle miniere americane. Oltre all’attività mineraria i trentini furono impiegati in alcune grandi industrie. La più nota è la fabbrica di soda a Solvay dove si concentrarono gli immigrati dalle Giudicarie e dalla valle di Ledro. Con il tempo furono in molti ad aprire un’attività commerciale o artigianale in proprio e a stabilirsi definitivamente. Nel 1914 una stima registrava 40.000 trentini residenti negli Stati Uniti, 5000 dei quali avevano ottenuto la cittadinanza. Dopo la Prima guerra mondiale si ebbe un rallentamento delle partenze anche dal Trentino. Furono comunque circa 4000 i trentini che emigrarono verso gli Stati Uniti nel periodo tra le due guerre. Un censimento del 1921 regista a New York la maggiore concentrazione nonché la presenza di più di 200 arrotini provenienti dalla val Rendena.
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